E’ di pochi giorni fa lo sfogo del fondatore di Twitter, Evan Williams, che in un’intervista sul New York Times chiede pubblicamente scusa per il fallimento del web. «Un tempo pensavo che, se avessimo dato a tutti la possibilità di esprimersi liberamente e scambiarsi idee e informazioni, il mondo sarebbe diventato automaticamente un posto migliore. Mi sbagliavo»  afferma Williams, e prosegue «Il problema è che non tutti siamo persone perbene. Gli umani sono umani. Non è un caso che sulle porte delle nostre case ci siano serrature. E invece, Internet è iniziato senza pensare che avremmo dovuto replicare questo schema, online».

Queste affermazioni hanno fatto il giro dei media, sia tradizionali che digitali, provocando dibattiti accesi sul presente e il futuro della comunicazione online e ci offrono uno spunto per meditare sulle famose predizioni di un altro personaggio simbolo dell’evoluzione tecnologica a livello globale, Steve Jobs, secondo il quale, in maniera apparentemente analoga ma sostanzialmente differente, il web non sarebbe stato mai in grado di avere l’impatto sociale, economico e politico dei grandi media tradizionali come la radio e la TV.

Oggi invece sembra evidente che un impatto determinante il web lo abbia, ma che non sia propriamente positivo. Secondo Williams, infatti, i blog e i social tendono a premiare tutto ciò che è eccessivo, valorizzando una parte dell’umanità che è sempre esistita ma che in precedenza non trovava espressione in maniera altrettanto diretta, pervasiva e massiccia. Minacce, cybercrime, notizie fake ed una produzione di contenuti che premia costantemente la quantità e mai la qualità, questi i nei di un sistema di comunicazione che parte dal basso verso l’alto ma che non ha alla base un’etica e valori condivisi di riferimento che possano condurre la società verso il miglioramento.

Da qui l’impegno di Google, Facebook ed altri giganti del web nel sviluppare sistemi di controllo volti a limitare la quantità di notizie false ed offensive, uno sforzo che richiede un investimento di energie considerevole considerando che il solo Facebook ha superato il miliardo  e mezzo di utenti, più della popolazione dell’intera Cina, contro i 500 milioni di Twitter, e la quantità di conversazioni online superano ogni giorno le decine di miliardi, un dato impressionante che ben rappresenta la potenza comunicativa dei nuovi media.

E poi, la nostra vita è veramente migliorata con l’avvento delle nuove tecnologie? L’iperconnettività e il sovraccarico di informazioni ci aiutano? Così non sembra, se prendiamo a testimonianza un’altra predizione dello stesso Jobs: «La maggior parte delle persone sarà bombardata da molte più informazioni di quelle che riesce ad assimilare». Sembra che anche i recenti studi sull’analfabetismo funzionale, italiani e internazionali, gli diano ragione mostrando dati allarmanti che registrano la perdita progressiva della capacità di elaborare informazioni semplici da parte della popolazione.

Indici internazionali di analfabetismo funzionale - Distribuzione degli analfabeti funzionali (%) nel quadro dei 33 paesi partecipanti allo studio PIAAC. L'Italia ha tra i risultati più alti in Europa (28%), preceduta solo dalla Turchia. Fonte: Inapp su dati Ocse-Piaac - Fonte L'Espresso

Indici internazionali di analfabetismo funzionale – Fonte l’Espresso

Insomma, una delusione collettiva per i sostenitori del web democratico e fautore di un’evoluzione sociale di carattere epocale. Contrariamente, appare piuttosto auspicabile una Internet Apocalypse alla Wayne Gladstone, che nell’incipit del suo fantasmagorico romanzo descrive un mondo che si ritrova improvvisamente in assenza di connessione:   «Quando ci fu il grande crash non andò affatto come temevamo. Non ci fu panico. Niente lacrime. Solo gente che batteva i pugni sul tavolo e imprecava. Internet non funzionava più, e cliccare su Aggiorna non serviva a niente. Anche “Ctrl, alt, canc” era inutile. Nessuno aveva Internet da nessuna parte. E non sapevamo perché. L’elettricità, l’acqua corrente e persino la televisione non avevano subito danni.»

Aldilà di questi divertenti spunti fantastici, ci pare opportuno riportare la discussione sui social media verso un punto di equilibrio che parte da una visione professionale di tali mezzi. In primis, Facebook, Twitter così come tutti i social, sono strumenti di marketing, creati per generare profitto a fronte di una visibilità. Ne consegue che trovino naturale collocazione nei piani di comunicazione e marketing aziendali e siano ottimi, ancora oggi, per offrire alle aziende sbocco diretto sulla propria utenza e in grado di generare, grazie anche ai nuovi chatbox e all’intelligenza artificiale, un customer care di qualità.

Usare invece i social per comunicare tra persone? Sempre con parsimonia, considerando in particolare che scrivere al riparo di schermo e tastiera non è comunicazione in senso lato: dove il corpo non c’è, l’umano tende a dimenticare la relazione, fatta di ascolto e di scambio reciproco, per privilegiare lo sfogo emotivo che è un tentativo goffo di auto-affermazione. Siamo molto lontani da ciò che invece contiene l’etimologia stessa della parola COMUNICARE: mettere in comune, come composto di cum (insieme) e munis (ufficio), ossia compiere il proprio dovere CON gli altri. Una responsabilità, quella di valutare la conseguenza delle proprie parole ed azioni sulla base di valori etici di riferimento, troppo spesso dimenticata.